American Fiction
Thelonious Ellison, inevitabilmente soprannominato "Monk" come il grande Thelonious jazzista, è uno scrittore nero di scarso successo, inorridito dalla tendenza dei colleghi afroamericani a indulgere nei peggiori stereotipi black, pur di accontentare il senso di colpa del pubblico di pelle bianca e passare alla cassa. Un po' per gioco, un po' come provocazione, scrive sotto pseudonimo un volgare romanzetto noir, una storia di gangstas e disperazione, di poliziotti che maltrattano i neri e di questi ultimi che si sparano addosso tra bande. In sostanza, un cumulo di cliché con un titolo ideato per scandalizzare: "Fuck". Involontariamente diventa un bestseller. Monk può così provvedere alle spese per il ricovero della madre, affetta da Alzheimer, ma è scosso da dubbi morali e riflessioni che lo conducono sempre più verso la misantropia. Soprattutto quando, invitato a far parte della giuria del Literary Award, si trova a dover valutare proprio "Fuck".
Nulla avviene per caso nella libera trasposizione che Cord Jefferson opera sul romanzo "Cancellazione" di Percival Everett. Persino lo pseudonimo adottato - Stagg R. Leigh - dovrebbe fungere da indizio sulle reali intenzioni di Monk.
Stagger Lee, o Stag-o-lee, è infatti una leggenda metropolitana, mitologico personaggio di magnaccia e assassino nero le cui sanguinose gesta si tramandano da generazioni attraverso una canzone folk. Monk veste i panni della caricatura ma nessuno se ne accorge. Specie gli editori, bianchi e agiati, quelli che si rifiutavano sistematicamente di pubblicare il suo ultimo romanzo, "impegnato" e assai poco black, ma si sciolgono di fronte al linguaggio crudo di "Fuck". Monk crede fermamente che il concetto di razza vada superato ignorando la diversità anziché accentuandola e che gli afroamericani siano molto più di un mucchio di luoghi comuni in cui rifugiarsi. Ma crede anche che il mercato chieda e chiederà a ripetizione questi ultimi perché guidato, fondamentalmente, dall'inestinguibile senso di colpa WASP. "I bianchi pensano di volere la verità, ma non è così. Cercano solo di essere assolti" sentenzia l'agente di Monk, in uno dei molti passaggi memorabili di una sceneggiatura puntuta, che mira al ventre molle dell'ipocrisia identitaria, in una successione di gag irresistibili e paradossi - i bianchi sono gli unici ad apprezzare "Fuck" ma non sono neanche sfiorati dalla sensazione di ridicolo che questo possa comportare - che piacerebbero a Ruben Östlund per lucidità e capacità di destabilizzare. C'è qualcosa di The Producers e del successo insperato di una provocazione in American Fiction, ma sotto la superficie di commedia drammatica ben scritta e ben recitata, si cela l'urgenza di riflettere amaramente sulle storture del presente. La transizione da un razzismo atavico a una radicale espiazione di facciata, condotta con superficialità, dimostra quanto nella sostanza i passi avanti siano stati minimi e quanto opere premiate o riverite come Moonlight - che pare nel mirino della parodia di "Fuck" - non facciano altro che capitalizzare sugli stereotipi black per accontentare pubblico e critica bianchi, mentre il mondo intellettuale sembra definitivamente sacrificato alle mode e al vento corrente del politicamente corretto.
Prigioniero delle sue intolleranze e del suo rigore autoimposto, quello di Monk è un personaggio finemente tratteggiato, emblematico di quanta difficoltà comporti oggi pensare con la propria testa e collocarsi al di fuori da correnti e schemi prefissati. Monk prende vita grazie a un'interpretazione che vale una carriera da parte di Jeffrey Wright, eterno caratterista che ha finalmente a disposizione un ruolo a tuttotondo, da protagonista di un film che graffia, diverte e commuove. American Fiction ha conquistato pure l'Academy, che forse - come gli editori di "Fuck" - non ha compreso di essere parte integrante del "problema" denunciato dal film di Jefferson.