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Dante

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Fred Flinstone
Fred Flinstone

1350. Dopo la morte di Dante, Boccaccio riceve il compito di consegnare alla figlia del sommo vate dieci fiorini d'oro come "risarcimento tardivo dell'ingiustizia patita". Giovanni, grande ammiratore del poeta defunto, accoglie l'incarico come un onore, mettendosi in viaggio per ripercorrere i luoghi che Dante ha attraversato nel corso del suo esilio. Durante il cammino ripercorrerà gli episodi salienti della vita del poeta, dall'incontro con Beatrice all'amicizia con Guido Cavalcanti, dalle guerre fra Bianchi e Neri all'ingresso in politica come priore fino all'"esilio infinito". Intessuti nella trama emergono i personaggi della Divina Commedia, da Paolo e Francesca al Conte Ugolino, sottoforma di racconti raccolti da Dante lungo il suo peregrinare.

È quest'ultima una delle intuizioni migliori di Pupi Avati, che va contro la prevedibilità del mettere in scena gli episodi più memorabili della Comedia per farli rimanere pura poesia nelle parole di Dante, ricordando come l'immaginario di uno scrittore viene ispirato da ogni evento testimoniato o vissuto.

D'altro canto questa scelta narrativa, che ci dà libero accesso alla Storia e alla Letteratura, presuppone una conoscenza capillare del capolavoro dantesco, e potrebbe risultare poco comprensibile ad uno spettatore meno preparato. Avati sembra partire dal presupposto che la Divina Commedia, così come i sonetti danteschi, siano codificati nel DNA di ogni cittadino italiano, mostrando suprema fiducia in quella scrittura in cui Dante ha convogliato il suo dolore, e che custodisce "l'emozione del mondo". Forse ha ragione, ma dal punto di vista dell'azione filmica la perdita della madre, l'innamoramento di Dante e la morte di Beatrice, il tradimento di Guido Cavalcanti, il tormento dell'esilio vengono raccontati in toccata e fuga in un film di un'ora e mezza che, di nuovo, sfugge alla tentazione enciclopedica, ma può risultare troppo poco movimentato. In questo contesto più letterario che cinematografico (in termini di azione) spiccano alcuni momenti davvero ispirati, come lo sguardo in camera di Beatrice, o il quadro del Papa ad Avignone che prende vita. Dante di Pupi Avati deve molto a Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi, anche in quel far parlare la Storia, e in questo caso la Letteratura, rivolgendosi direttamente allo spettatore, e nel restituire al pubblico una dimensione compositiva che affonda le sue radici nella tradizione pittorica italiana. E la scelta di girare in luoghi per certi versi rimasti intatti nel tempo, come Bevagna o Viterbo, fra l'Umbria, l'Emilia-Romagna e il Lazio, rendono assai credibile la sua ambientazione Medioevale.

Questo Dante è un atto d'amore sviscerato, e il personaggio di Boccaccio è evidentemente l'alter ego di Avati, un estimatore del sommo vate (oggi lo definiremo un groupie!) che sa immaginarlo soltanto eternamente ragazzo, e che del suo idolo vede solo i lati positivi: il che è anche un limite del film, perché il Dante di Avati non ha ombre, è sempre vittima della sua ingenuità e delle sue buone intenzioni incomprese, e dunque meno complesso di quanto la narrazione richiederebbe. Ma nel suo entusiasmo incontenibile Avati restituisce valore all'incanto della poesia dantesca, soprattutto i sonetti, contestualizzandoli nella perfetta ricostruzione di un mondo andato che ancora oggi ci forma. E se da un lato il regista e sceneggiatore ha il coraggio di essere visionario, dall'altro alcune immagini (come Beatrice che mangia il cuore di Dante, che sembra rimandare a Il racconto dei racconti di Garrone), possono apparire eccessive nel contesto realista della messa in scena. Molto diseguale l'interpretazione degli attori: a tocchi di classe come Erica Blanc, Alessandro Haber, Leopoldo Mastelloni o Mariano Rigillo, che in brevi apparizioni valorizzano tutta la loro esperienza teatrale, fanno da inadeguato contraltare alcuni attori che, oltre alla minore capacità recitativa, hanno fattezze moderne (e debitrici del chirurgo plastico) davvero inadatte alla rappresentazione d'epoca. Così come il commento musicale, di per sé validissimo, sottolinea troppo pesantemente molte scene, accentuando un'emozione cui dovrebbero bastare le circostanze. 

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