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Empire of Light

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Fred Flinstone
Fred Flinstone

Margate, 1981. Tempi duri per la Gran Bretagna, precipitata nella recessione e scossa da un razzismo endemico. Il cinema è la sola via di fuga. Svettante come un faro lungo la costa inglese, l'Empire brilla di mille luci e indica la via agli spettatori di buona volontà. Costretto a chiudere due delle sue quattro sale, questo maestoso cinema in declino è gestito da Mr. Ellis, che di elegante ha solo il titolo. L'anima del suo esercizio è Hilary, segretaria coscienziosa, dedita alla professione e attenta ai suoi 'dipendenti', diretti come una famiglia. Uscita spezzata da un esaurimento nervoso, sta riprendendo lentamente a vivere. Hilary naviga a vista tra proiezioni, a cui non assiste mai per eccesso di zelo, e una relazione tossica con Ellis, che 'abusa' della sua infelicità. Ma a cambiare le cose arriva Stephen, un giovane ragazzo nero che prova subito empatia per Hilary. A colpi di biglietti staccati, Hilary e Stephen si avvicinano, teneramente, appassionatamente. Insieme incarnano un futuro migliore per la Gran Bretagna.

Con Empire of Light, Sam Mendes sente soprattutto il bisogno di tornare alla sua 'infanzia', in un gesto retrospettivo condiviso recentemente, dettaglio affatto trascurabile, con altri autori della sua generazione: Quentin Tarantino (C'era una volta a... Hollywood), Paul Thomas Anderson (Licorice Pizza), James Gray (Armageddon Time).

Dopo 1917 Mendes ritorna agli anni della sua formazione ma Empire of Light non è strettamente autobiografico, si ispira piuttosto alla musica, ai film e al clima politico che hanno influenzato la sua adolescenza, il cinema soprattutto. Mendes non celebra per forza quello 'maiuscolo' ma quei film popolari che danno forma ai nostri ricordi e sono indelebilmente associati ai passaggi della nostra vita. Come James Gray ma a un'altra latitudine, Mendes rivisita la disillusione degli anni Ottanta attraverso la relazione sentimentale tra una donna bianca e un ragazzo nero. Entrambi realizzano una sintesi emotiva di un momento storico decisivo: il passaggio agli anni Ottanta, che porterà al potere Ronald Reagan e Margaret Thatcher, spazzando via le speranze e le utopie dei decenni precedenti. Se in Armageddon Time il legame tra due compagni di classe, di nuovo uno bianco e l'altro nero, guadagna tutto nel lungo periodo, in Empire of Light l'amicizia tra Hilary e Stephen è schematica e ridotta alle sue premesse. Il personaggio di Michael Ward è più simbolico che approfondito e il trattamento del tema razziale sbilanciato sull'artificio drammatico (la sequenza che coinvolge una gang violenta e razzista). Ma Mendes sa bene come rendere sensibile l'invisibile: il confronto carico di tensione tra Stephen e un cliente odioso basta da solo a rappresentare la violenza della disuguaglianza. L'ambizione dell'autore inglese è di guardare negli occhi i tradimenti silenziosi di un Paese che non ha voluto ascoltare e saputo guardare, l'Empire proietta Nessuno ci può fermare diretto da Sidney Poitier, un messaggio di diversità in un clima brutale e razzista. Ma le forze sociali che in America lavorano per rimettere ognuno al proprio posto, il protagonista afroamericano scompare dal quadro per vivere come un'ombra nelle regioni della cattiva coscienza bianca, in UK mettono a tacere la sensazione di ingiustizia scrivendo favole puramente liberali dove anche i marginali possono trovare il loro centro. La perdita di innocenza di un'intera generazione si accomoda in un gioiello vintage ubicato in una città costiera, grigia e impermeabile. Una sala che col calo di incassi ha già spento due schermi. Mendes rispolvera una meraviglia art déco di pannelli di legno burlato e velluti rossi, un cinema abbandonato a Margate. La geometria superba della sala è accentuata dalle composizioni simmetriche di Roger Deakins, direttore della fotografia e collaboratore frequente di Mendes.

Un luogo di memoria vivente per una Olivia Colman stellare, che inveisce contro la crudeltà e legge Auden col rossetto sui denti. Nient'altro nel film ha l'impatto drammatico della sua performance, una montagna russa emozionale in picchiata sul suo volto. Piena di una vulnerabilità vibrante, si illumina o registra un affronto il tempo di un respiro. La sua Hilary ha sovente l'espressione afflitta, si risveglia alla vita con dosi di litio e approfitta della vita allacciando un compagno occasionale nella danza o stringendo un legame solidale coi suoi colleghi, giovani e punk. Unica eccezione, il proiezionista stagionato di Toby Jones che rende credibile il suo amore per la professione e i meccanismi complessi della cabina di proiezione. La sceneggiatura, tuttavia, enfatizza e accumula affermazioni altisonanti su fasci di luce, fotogrammi statici, illusione del movimento..., che assomigliano più a 'studiate' dichiarazioni autoriali. Perché Mendes inserisce i suoi personaggi in un momento storico definito non solo dal thatcherismo e dalla violenza cieca degli skinhead, ma dal cinema in sala. Tra Momenti di gloria e Oltre il giardino, ultimo ruolo di Peter Sellers, che assomigliava già al suo fantasma, Empire of Light 'proietta' tutte le ambiguità, sociali e cinematografiche, di un'epoca in cui le sale morivano con gli uomini e con gli idoli. Diversamente dai suoi colleghi, Sam Mendes si limita a una constatazione amara. La malinconia per lui non è un terreno in cui piantare il germe di un cinema nuovo ma uno "stato della mente" in cui crogiolarsi e prolungare il lutto di un'arte fragile. Una maniera come un'altra di resistere al proprio tempo e alle piattaforme.

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