Io Capitano
Seydou e Moussa sono cugini adolescenti nati e cresciuti a Dakar, ma con una gran voglia di diventare star della musica in Europa. Tutti in Senegal li cautelano contro il loro progetto, in primis la madre di Seydou, ma i due sono determinati, e di nascosto intraprendono la loro grande impresa. Un viaggio che si rivelerà un'odissea attraverso il deserto del Sahara costellato dei cadaveri di quelli che non ce l'hanno fatta, le prigioni libiche e il Mediterraneo interminabile e pericoloso. I furti, le violenze e i soprusi non si conteranno, ma ci saranno anche gesti di umanità e gentilezza in mezzo all'inferno. Soprattutto, Seydou dovrà scoprire che cosa comporta mettersi al timone della propria e altrui vita in circostanze ingestibili.
In un certo senso Matteo Garrone fa cominciare il suo racconto dal suo film precedente, perché Seydou e Moussa sono Pinocchio e Lucignolo in partenza per il Paese dei Balocchi, circondati da gatti e volpi pronti a predare sulla loro ingenuità.
Così facendo, Garrone toglie da subito Io capitano dalla retorica polarizzata che caratterizza il tema dell'immigrazione, restituendogli una purezza di racconto narrato dal punto di vista di chi non viene mai interpellato sull'argomento. Dall'ottica di Seydou e Moussa il viaggio è un'avventura da Capitani coraggiosi, degna di Jack London e di Robert Louis Stevenson. Ciò nonostante Garrone, qui regista e cosceneggiatore con Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini e Andrea Tagliaferri, inserisce nella trama tutti gli elementi che faranno di questo film una cartina di tornasole degli opposti schieramenti: ad esempio i due ragazzi non scappano dalla miseria o dalla guerra ma scelgono autonomamente di avventurarsi oltre il Mediterraneo e gli scafisti libici apparentemente possiedono il numero di cellulare di una ONG, e per contro il film evidenzia il rimpallo della Guardia Costiera italiana e delle autorità marittime maltesi circa il destino dei migranti. Io capitano è soprattutto una parabola sulla necessità di assumersi la responsabilità delle proprie azioni, incarnata nella figura nobile di Seydou che, invece di pensare solo alla propria sopravvivenza o al proprio tornaconto, si fa carico degli altri, fino a portare con sé anche il loro ricordo di chi non è arrivato alla meta.
Garrone abbandona ogni retorica tenendosi attaccato alla dignità umana del suo protagonista come ad un salvagente, e dedica alla sua (dis)avventura la magnificenza pittorica delle immagini (il direttore della fotografia è Paolo Carnera) e la sua eccezionale desterità registica, che tocca il suo apice in una scena di estrazione dei corpi da una stiva che mette in evidenza anche la maestria al montaggio di Marco Spoletini. Il commento musicale (il compositore è Andrea Farri, ma alla selezione c'è lo stesso Garrone) è impavido nell'accostamento di sonorità africane e rock (il riff iniziale pare campionato da "Wish You Were Here"); e Seydou Sarr nei panni del protagonista 16enne è un miracolo di autenticità ed empatia.