Bones and All
Verso la metà degli anni 80, Maren vive con il padre in Virginia ed è un'adolescente come tante. La sua vera natura costringe però il padre ad abbandonarla e a lasciarla al suo destino. Rimasta sola, Maren parte alla ricerca della madre che non ha mai conosciuto e lungo il tragitto conosce persone come lei, vagabondi ed emarginati nella società americana dell'era Reagan, tra cui Lee, di poco più grande, sbandato e affascinante, con il quale Maren prosegue il suo viaggio. Stato dopo stato, dal Maryland al Nebraska, incontro dopo incontro, Maren e Lee trovano la propria strada, incerti e spaventati di fronte all'irrompere del desiderio che li guida.
Primo film in terra americana per Luca Guadagnino, che attraversa le grandi pianure del Midwest per seguire la dolce deriva di due dropout divisi fra la necessità di accettare la propria natura e la paura di combatterla.
Lo dice il padre di Maren, nella registrazione audio che lascia alla figlia prima di abbandonarla, qual è lo spirito di Luca Guadagnino verso i protagonisti del suo ultimo film, tratto da un romanzo di Camille DeAngelis adattato da David Kajganich: «Non mi sono mai chiesto cosa fossi, ma chi sei!». We Are Who We Are, siamo chi siamo, era del resto il titolo della precedente serie del regista italiano, basata su un altro incontro di due figure "a parte", incerte della propria natura, né maschio né femmina, sia maschio sia femmina, così come i giovani Maren e Lee di Bones and All (interpretati da Taylor Russell e Timothée Chalamet), appartengono a una specie animalesca eppure umanissima, per come è mossa da un desiderio reale e metaforico di sfamarsi. Nel corpo centrale degli Stati Uniti, negli anni non casuali - come sottolineano le voci di notiziari televisivi e radiofonici - del reaganismo e della cura Giuliani di New York, da un lato, e dalla diffusione dell'Aids, dall'altro, che chiamava le nuove generazioni a controllare, o forse più ancora reprimere i propri istinti, Guadagnino unisce i due temi centrali della sua opera - l'accettazione di sé, della propria unicità, e la necessità di confrontare il proprio desiderio con quello dell'altro - con l'immaginario di una nazione e della sua epoca. Grazie allo splendido lavoro del direttore della fotografia Arseni Khachaturan, che gira in pellicola e tiene bassi i toni della luce e dei colori, e a un perfetto controllo della messinscena da parte di Guadagnino, soprattutto nella prima parte il film coglie con un montaggio ellittico e lirico la solitudine e l'inquietudine di Maren. La lenta scoperta del suo desiderio più intimo, la sua fame e la sua inevitabilità; poi l'incontro con una comunità di suoi simili e in particolare con Lee, con il quale si sposta di luogo in luogo restano quasi invisibile agli occhi degli altri.
Maren, Lee e quelli come loro (tra qui un inquietante vagabondo interpretato da Mark Rylance e due pericolosi redneck a cui Michael Stuhlbarg e il regista David Gordon Green danno diverse sfumature di follia e paura) sono altro rispetto alla società, si riconoscono con l'olfatto, condividono un segreto che definisce le loro identità, e sono per questo chiamati ad accettare fino in fondo - bones and all, fino all'osso - ciò che realmente sono. Maren, Lee e quelli come loro, ancora, buoni o cattivi, soli o con qualcuno al proprio fianco, non possono fare a meno di commettere crimini, di sporcarsi di sangue, di amare, mangiare, uccidere: ma prima di tutto devono scegliere di essere individui, uomini, donne, amanti, figlie, figli, madri, padri, e combattere l'inevitabilità della propria solitudine (inutile sottolineare le ripercussioni di un simile tema nella società di oggi...). Nei momenti più cupi del film, Guadagnino riesce a rendere fisico l'istinto autodistruttivo e fagocitante dei personaggi, opposto alla ricerca dell'incontro con l'altro. Nell'incontro di Maren con la madre (una splendida Chloé Sevigny, che in poche scene racchiude nel suo corpo mutilato la potenza di un amore distruttivo), la liberazione di una figlia dal fantasma di chi l'ha messa al mondo e l'ha condannata, avviene in una sconvolgente cornice horror. Così come nel finale inevitabilmente carico di sangue - che arriva dopo una lunga e poco controllata parentesi romantica e on the road, con le musiche di Trent Reznor e Atticus Ross che indugiano in toni malinconici - la violenza incontra l'amore assoluto, la totalità dell'essere la pienezza della carne, fino a cancellare ogni traccia. Come cantavano i Radiohead: «I will eat you all alive / there'll be no more lies». Ecco dove porta il cinema di Luca Guadagnino, qui esposto in una forma matura, fin troppo ragionata, mai così lucida e per questo, forse, troppo trattenuta, senza la magia o la commozione dei suoi lavori migliori.