Il bambino nascosto
Gabriele Santoro è un maestro di musica, insegna pianoforte e ha scelto di abitare nei Quartieri spagnoli, pur provenendo da una famiglia della Napoli bene. Vive in solitudine un'esistenza abitudinaria e sempre uguale finché un bambino non si intrufola nella sua bella casa: è il figlio del vicino del piano di sopra e la camorra lo sta cercando, per motivi a Gabriele sconosciuti. Quell'uomo schivo che "pensa solo ai cazzi suoi" si ritrova davanti una "creatura" che gli intima: "Tu mi devi aiutare". E Santoro sa, come recita una delle poesie che ripete a memoria per non perdere la lucidità, che "quando ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga, fertile in avventure ed esperienze".
Roberto Andò dirige l'adattamento cinematografico del suo omonimo romanzo, sceneggiandolo insieme a Franco Marcoaldi.
L'afflato poetico è la spina dorsale di una narrazione fatta di silenzi e di sguardi, ma anche ricca di svolte drammatiche e problemi reali, nel contesto allucinato di una città dominata da una malavita che opera in parallelo alle persone oneste finché le loro strade per caso non si incontrano. Silvio Orlando entra in una maturità interpretativa sofferta ma proprio per questo alleggerita da qualunque vezzo o tecnicismo, e Giuseppe Pirozzi che interpreta Ciro, il bambino nascosto, può contare su un carisma naturale e una spontaneità non edulcorata. In un luogo senza legge l'uomo anziano e il bambino formano un'insolita alleanza, in barba ai consigli interessati di Renato, il fratello di Gabriele, un magistrato che ritiene che il maestro di musica abbia tradito la loro storia famigliare facendo scelte di vita che non si limitano al trasferimento dal Vomero alla Napoli "sporca e cattiva". "Sei un protestante nel luogo sbagliato", dice Renato a Gabriele. Ma la parabola laica del maestro è un viaggio verso la consapevolezza che Andò racconta con estrema eleganza formale (la fotografia è di Maurizio Calvesi, il montaggio di Esmeralda Calabria e le scenografie e i costumi di Giovanni Carluccio e Maria Rita Barbera) e con grande sincerità espressiva. In questo arco (narrativo) teso c'è una coerenza che non è solo quella del protagonista ma anche quella dello scrittore e regista che ne racconta la storia con calma, senza "frenetico via vai", aggiungendo pennellate discrete al ritratto di una solitudine scelta e poi altrettanto scientemente abbandonata. A riprova che non è necessario sparare fuochi d'artificio per ricreare la poesia della vita, che resiste anche nei contesti più aberranti, come un giglio che cresce fra le spaccature dei marciapiedi di città.