The Firt Lady
È tra i progetti più ambiziosi e meno fortunati che siano mai stati realizzati. Prodotto e diretto dalla regista Susanne Bier, che anche in epoca pre-Time is Up già scriveva e dirigeva storie di donne cariche di spessore ed emotività, The First Lady mira a raccontare in tutta la sua complessità la figura della First Lady statunitense. Lo fa scegliendo tre figure rappresentative su tutte, di epoche diverse, e mettendole a confronto a distanza, alternando di continuo le vicende dell'una e delle altre all'interno dello stesso episodio. Il risultato è un vitale dialogo impossibile tra tre donne che, a modo loro, hanno fatto la storia. Le accomuna la determinazione a non farsi bastare il ruolo di moglie e a non voler vivere all'ombra dei propri ingombranti mariti.
Ad interpretare le tre first lady, tre attrici d'eccezione che fanno propri i loro personaggi e li rendono tridimensionali, riconoscibili e attuali.
Apre la serie, disponibile su Paramount+, Viola Davis nei panni di Michelle Obama, che posa di fronte alla fotografa e, nel ricevere un complimento, fa una battuta ironica sul marito Obama. C'è poi Betty Ford interpretata da Michelle Pfeiffer, la più vulnerabile delle tre, che seguiremo in una discesa degli abissi con tanto di faticosa risalita. Spicca la fuoriclasse GiIlian Anderson nei panni della 'rivoluzionaria' Eleonor Roosevelt, che già nel 1940 si schierava a favore delle donne e dei rifugiati. Il primo episodio è il più "tiepido", si configura come un tradizionale esordio di una serie antologica, con la presentazione al pubblico delle tre protagoniste. Il secondo mira a raccontare al pubblico come mai siano state considerate donne "scomode", ritenute non abbastanza qualificate e possibili ostacoli per i rispettivi mariti, dunque perennemente intralciate e mal viste. Il terzo compie invece un passo indietro, per raffigurarle da giovani e raccontare i loro incontri fatidici con i rispettivi mariti e futuri presidenti. Incrociando le loro storie, Bier mira a raccontare la storia degli Stati Uniti filtrata attraverso la prospettiva privilegiata di chi ha potuto abitare, e spesso influenzare, le stanze del potere. Brillante l'idea di inserire nella narrazione inserti di repertorio, a dimostrare quanto sia stato fedele e intenso il lavoro con i dati reali. Colpisce, tra gli altri, l'insistenza sul tema razziale, con l'omicidio di Martin Luther King e di sua madre, le minacce di morte ad Obama e la difficoltà per Michelle di essere riconosciuta e accettata ai vertici della società sin dai tempi dell'università. Resta storica l'offensiva copertina sugli Obama del New Yorker Magazine del 2008. Davis interpreta Obama con la consueta performance superlativa, per quanto a tratti sembri di rivedere lampi di un'altra avvocata, Annalise Keating di Le regole del delitto perfetto. Eppure in queste nuove e inedite sopracciglia sottili, nel broncio pronunciato, nelle smorfie talvolta eccessive per somigliare a Michelle, emerge episodio per episodio tutta la sua bravura nel superare la sfida della contemporaneità (la sua è la First Lady più vicina in ordine di tempo e l'unica tuttora in vita).
L'unico crossover tra i personaggi è quando Betty Ford le scrive una lettera. È il personaggio più complesso, quello che interpreta Pfeiffer. Ritenuta non adatta al ruolo e da contenere, sopraffatta dalla frustrazione per non essere diventata una grande ballerina, cade dal quarto episodio in poi in una spirale di psicofarmaci e alcolici, nel quinto scopre addirittura un tumore e coglie l'occasione per incoraggiare le donne americane al rispetto per la propria salute. L'operazione di sensibilizzazione ha successo, nel raccontarla la regia non teme fantasmi: memorabile la scena di lei allo specchio dopo la mastectomia con le cicatrici in vista, abbracciata dal marito (Aaron Eckart) che le sussurra "Sei bellissima". Sono tante le scene che tendono a infrangere il mito di vetro di Presidente e First Lady come figure vincenti. Su tutte quelle di Roosevelt (Kiefer Sutherland, già presidente nella serie Designated Survivor) quando scopre la poliomielite e diventa il primo presidente disabile. Sua moglie Eleonor non si perde d'animo, mai. Non la entusiasma che il termine First Lady si riferisca più al suo sesso che alle sue capacità, cambia i discorsi al marito dicendogli "Siamo una bella squadra", tutto si infrange quando lui la tradisce. Da lì il suo personaggio subisce un'interessante metamorfosi che Anderson è bravissima a interpretare, il pubblico la segue volentieri nel suo interesse per il femminismo, nella fascinazione per certi circoli intellettuali e nella sua relazione extraconiugale omosessuale che apre il sesto episodio e racconta la modernità di una donna, ma anche di una coppia (Roosevelt lo saprà). Il sesto episodio resta sul tema e lo approfondisce, arrivando fino alla posizione positiva di Obama sui matrimoni gay. Il settimo episodio segue lo slogan di Eleonor Roosevelt "Una casa divisa contro se stessa non può reggere". Come membro dell'Associazione Figlie della rivoluzione americana, incita le donne a non fare discriminazioni di alcun tipo, specie razziali. Anche la sua odiata suocera interpretata da Ellen Burstyn finirà per riconoscere la sua eccezionalità. L'ottavo episodio spinge sul "black lives matter', con il flashback di Michelle Obama all'università quando le dissero che l'università di Princeton le era preclusa per incompatibilità culturali. Chiude la puntata un suo discorso agli studenti davvero commovente. Nel nono al suo serrato faccia a faccia con Hilary Clinton e all'ascesa al potere di Trump si alternano scontri familiari in casa Ford. La rampolla di famiglia interpretata dalla talentuosa Dakota Fanning supplica la madre di andare in clinica a disintossicarsi. Nel frattempo Eleonor Roosevelt fa un importante discorso alla nazione in vista della seconda guerra mondiale. Nel decimo si tirano tutte le fila narrative, sottolineando attraverso potenti monologhi di ognuna delle protagoniste come di fatto la storia delle First Ladies sia la storia dell'America. Di "selfe-made women" che ce l'hanno fatta costruendosi a partire da zero o, come nel caso della Ford che esce dalla clinica di riabilitazione e fonda un suo personale Treatment center contro droghe e alcol, ricostruendosi. Nel corso del racconto, la cui durata complessiva supera la decina di ore di visione, a fare la differenza, oltre alle performance attoriali, sono i video di archivio che arricchiscono la narrazione mostrando ora la seconda guerra mondiale, ora la morte di Roosevelt, ora l'ascesa di Obama, ora quella di Trump. Un'operazione gigantesca, a livello di scrittura come di regia e produzione, che spiace non sia stata compresa, anche nel suo alto valore politico, e cancellata dopo appena una stagione.