The tragedy of Macbeth
Al coraggioso guerriero Macbeth le streghe pronosticano un'imminente ascesa al trono. Ma quando il re premia il suo eroismo con un titolo nobiliare invece che con la corona, Macbeth decide di realizzare da sé la profezia e uccide il monarca, prendendone il posto. Ad alimentare la sua ambizione è la moglie, ma per entrambi sarà l'inizio di una discesa nella follia della quale sono stati gli artefici. The Tragedy of Macbeth annuncia fin dal titolo la tragedia in divenire, pronta a dispiegare le sue ali nefaste come i corvi che abitano questa ennesima trasposizione cinematografica dell'opera di Shakespeare, il primo dei quali è una strega avvolta su se stessa che lentamente si srotola in movimenti innaturali: è la straordinaria Kathryn Hunter, e nell'incipit è enucleata tutta la storia a seguire.
Joel Coen, al suo primo film senza il fratello Ethan, mette in scena un testo quintessenzialmente teatrale che ha per coprotagonista la moglie Frances McDormand nei panni della sulfurea Lady Macbeth.
Con l'aiuto dello scenografo Stefan Dechant, Coen ha edificato un set negli studi losangelini che ricorda l'architettura razionalista e i quadri metafisici di de Chirico, il Titus di Julie Taymor come il Macbeth di Orson Welles. Anche il formato 1.19:1, usato dal cinema muto prossimo al crepuscolo, è una scatola quadrata per contenere l'esplosività di una storia di passioni represse, e la direzione della fotografia di Bruno Delbonnel (amato da Jeunet e da Tim Burton, ma anche dalla Taymor, dal Sokurov di Faust e dagli stessi Coen di A proposito di Davis), utilizza un bianco e nero a tratti così contrastato da creare l'effetto eclissi di sole, a tratti sfumato in infinite gradazioni (morali) che omaggiano le ombre espressioniste e il cinema noir. Ma Macbeth non si limita ad essere teatrale o cinematograficamente citazionista, e sceglie un'interpretazione originale della vicenda scespiriana, inserendo elementi nuovi come l'età dei due protagonisti, che da coppia relativamente giovane, e potenzialmente ancora fertile, diventano i sessantenni Denzel Washington e McDormand: il che trasforma il racconto in un tentativo in zona Cesarini di ottenere quanto è stato loro negato dalla vita - il potere ed una discendenza, desiderio quest'ultimo pesantemente sottolineato nel recente Macbeth di Justin Kurzel e qui appena accennato, ma capace di togliere il respiro. Coprotagonista è dunque quel tempo che comincia a mancare e sottolinea le occasioni perdute, riflesso nella scelta degli autori di ridurre all'osso il testo della tragedia più breve di Shakespeare. Anche i suoni - il bussare alle porte, le gocce che cadono sul pavimento - sono i rintocchi di un orologio biologico non solo femminile, sono i batti del Cuore rivelatore di Edgard Allan Poe, e i richiami di due coscienze arrivate a redde rationem. Altro elemento di novità, profondamente Coe(n)rente, è un anelito spirituale negato, un desiderio di elevarsi che si trasforma in salto nel vuoto: Macbeth cerca di pregare e non ci riesce, il potere e la gloria sono riflessi elusivi in pozze d'acqua senza profondità, e il guerriero coraggioso diventa fabbro della sua sventura nel momento in cui smette di cercare qualcosa di più alto della propria ambizione materiale. In questo, più ancora che nel bianco e nero e nelle inquadrature composite, Joel Coen rimanda a Dreyer e Bergman, e veste uno dei personaggi meno delineati da Shakespeare, Ross, come una figura monastica affidandone il ruolo a un grande attore inglese, Alex Hassell, che nella vita è figlio di un vicario.
La stilizzazione elegante e l'estrema cura formale non sono mai meramente estetizzanti ma consentono al Macbeth di Washington, il cui colore della pelle diventa davvero irrilevante, di definirsi nella sua fallibilità umana e vibrare della propria scarsa autostima. La Lady Macbeth di McDormand da un lato lo provoca mettendone in questione la virilità, dall'altro ammutolisce dall'orrore nel vedere il suo uomo incapace di fermarsi una volta raggiunto lo scopo: perché se lei, da donna, avesse accesso al potere probabilmente lo saprebbe invece gestire con oculata misura. Coen fa leva sull'intimità tossica fra due coniugi che desiderano potenziarsi a vicenda e invece firmano la reciproca condanna, e i temi della ridefinizione identitaria del maschile e del potere negato dalla Storia al femminile brillano nell'assenza di un'agenda politica esibita. Questo Macbeth è un capolavoro di misura e understatement interpretativo, soprattutto da parte del monumentale Washington che fa sembrare le parole del Bardo partorite spontaneamente dalla confusione esistenziale del suo protagonista. E l'ambiente in cui si muove è l'ennesimo diorama Coen per incastonarvi un dilemma morale irrisolvibile; un altro noir su un uomo che non c'è mai stato veramente e che cerca, in camera caritatis, di lasciare comunque il proprio segno.